
Distopie reali: quando la narrativa anticipa il futuro
C’erano una volta dei libri che leggevamo come fantasie oscure, visioni esagerate di futuri impossibili. Oggi, invece, quelle pagine sembrano cronaca. Spaventosa, lucida, quasi profetica.
Estremisti del web. Così un mio docente ha definito tutte quelle persone convinte che l’incidenza della rete sulle nostre vite sia divenuta pressoché totale.
Estremisti perché, secondo lui, questa convinzione è decisamente esagerata. Estremisti perché, secondo lui, il marketing è pur sempre qualcosa di reale e tangibile. Estremisti perché, secondo noi, non è poi così impossibile che Mark Zuckerberg (fondatore di Facebook) possa diventare l’antagonista politico di Donald Trump. Io sono un’estremista del web. Non a caso tutto ciò che scrivo e che leggo è incentrato su fatti reali incrociati con le dinamiche virtuali. Sono estremista e non me ne vanto. Non perché ci sia chissà cosa di cui vergognarsi, ma perché non mi piacciono i concetti al limite, per l’appunto estremizzati.
Preparatissimo esperto di marketing, il mio docente appartiene a una generazione che si è trovata a sforzarsi di comprendere ciò che per noi (inteso come generazione X, detti millenials) è una nuova realtà. Un qualcosa che, per i giovani nati dopo di me, cioè i cosiddetti nativi digitali è l’unica realtà. Non credo che il mio docente non capisca, o non voglia sforzarsi di farlo. Penso sicuramente che le sue difficoltà a sposare il “nostro” punto di vista, siano le stesse dei miei genitori, dei clienti a cui presto consulenza ecc… Commetterei un errore grossolano se ammettessi l’esistenza di una vita reale separata da quella digitale. Non accetto questa distinzione perché di fatto, non esiste. Ciò che accade nella vita virtuale è il risultato delle azioni di uomini reali tramite l’utilizzo di un device. Così come dietro un insulto su Facebook non c’è un robot ma un leone da tastiera, così quando il fondatore di Facebook pubblica il suo primo discorso politico, non si può far finta di nulla e ritenere che il posto di Zuckerberg nel mondo sia relegato allo schermo di un PC.
Tra frasi oscene e decreti improbabili, i più tragici parlano di venti di guerra mentre i cinici guardano con malcelata ammirazione alla velocità di propagazione nel mondo del pensiero politicamente scorretto. Sembra proprio che ogni shock mediatico creato da Trump sia in grado non solo di condizionare il sistema dell’informazione ma anche quello di far crescere continuamente la sua popolarità. Dice ciò che molti avrebbero voluto dire e fa ciò che molti leader hanno sempre cercato di nascondere. Non è molto diverso da tutti i politici che si conoscono. Non è così eccezionale come appare sui media. In fin dei conti è semplicemente un essere umano più furbo di altri, altamente consapevole del sentiment di questo momento storico. Ogni sua azione ha un effetto globale che si ripercuote fin qui, in Europa. Ad ogni grido al nazionalismo di Trump corrisponde una scalata di popolarità dei partiti nazionalisti nostrani. E io ammetto di essere completamente affascinata dal suo modo di utilizzare la comunicazione come perno di azione.
Ogni volta che Trump interviene pubblicamente, penso a quante riunioni di staff occorrano per preparare certi capolavori della viralità. Forse sono troppo nichilista e non resto sconvolta o offesa dalle sue esternazioni. Ciò che mi colpisce sono gli effetti che esse provocano. Ecco perché quando ho letto le dichiarazioni di Mark Zuckerberg circa il blocco razzista imposto da Trump ho iniziato a frugare in ogni anfratto del web per capire se sia vero o meno che il fondatore di Facebook stia pensando seriamente di diventare il nuovo inquilino della Casa Bianca. Quando l’America tornerà ad eleggere il suo nuovo presidente, sarò curiosa di tornare a leggere questo mio articolo per verificare se ci avevo visto bene. Il fatto è che non me la sento di sparare una cosa così eclatante come molte testate hanno fatto. Tuttavia, in parte mi trovo d’accordo con chi ha visto nelle affermazioni di Zuckerberg, una forte intenzionalità ad entrare in politica. Ciò che mi affascina di tutta questa vicenda è che se da un lato Trump ha dimostrato una certa dimestichezza con le dinamiche della comunicazione, cosa potrebbe accadere se il numero uno dei social network gli mettesse il bastone tra le ruote?
Ha creato un prodotto in grado di produrre valore, lavoro, informazione, soldi, business e database. E in un solo post ha immediatamente sbugiardato l’incoerenza della campagna trumpista costruita sul nemico immigrato. Con un semplicissimo aneddoto, quello della multiculturalità della sua famiglia e della sua rete di amici e conoscenti, ha smontato pezzo per pezzo quella che sembra la miglior battaglia politica di Trump. Infondo, l’America non è che un conglomerato di immigrati provenienti da ogni parte del mondo, un mix incredibile di culture e provenienze che ha una storia recente e una cultura della tradizione ancora troppo giovane. Ha senso combattere una battaglia contro lo straniero in un Paese così configurato? Potrebbe essere questa una delle debolezze del trumpismo? Come Justin Trudeau, anche Mark Zuckerberg ci ha visto lungo, molto più di Donald Trump. Non vedo l’ora di poter confutare il tutto con dei fatti reali. Per il momento ti lascio con un emblematico “staremo a vedere”.
C’erano una volta dei libri che leggevamo come fantasie oscure, visioni esagerate di futuri impossibili. Oggi, invece, quelle pagine sembrano cronaca. Spaventosa, lucida, quasi profetica.
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