Facebook X The love you take is equal to the love you make. E’ stato questo il claim della nuova campagna di Adidas che, per lo scorso San Valentino, ha pubblicato su Instagram la foto di quattro scarpe, indossate presumibilmente da due donne che si stanno baciando. Anche la nota azienda di abbigliamento sportivo dunque, […]
The love you take is equal to the love you make. E’ stato questo il claim della nuova campagna di Adidas che, per lo scorso San Valentino, ha pubblicato su Instagram la foto di quattro scarpe, indossate presumibilmente da due donne che si stanno baciando. Anche la nota azienda di abbigliamento sportivo dunque, si è schierata a favore dei diritti civili per gli omosessuali. I like alla foto sono stati 250mila e i commenti di elogio sono stati tantissimi.
L’impegno è tenuto anche da un punto di vista legale: nessun contratto con nessun atleta verrà revocato o modificato qualora questi dichiari di essere omosessuale (strano ma, pensandoci, non è così ovvio che accada). Il gesto di Adidas è eclatante, quasi rivoluzionario se si pensa alle continue polemiche sull’omofobia nello sport e ai tanti atleti costretti a nascondere la propria sessualità per paura di essere discriminati.
La Adidas non è la prima azienda a schierarsi dalla parte dei diritti civili. L’esempio più recente è stato quello dello scorso gennaio. In occasione del family day, la manifestazione che si è svolta a Roma contro l’approvazione delle unioni civili, tantissime aziende hanno deciso di non nascondere come la pensavano.
Dalla Ceres che rispose alla mossa di Maroni di illuminare il Pirellone con una frase anti-unioni, pubblicando sulla propria pagina “Spegni tutto e scendi al bar” nello stesso stile del governatore della regione Lombardia, fino ad arrivare alla Coop: “Famiglia è quando qualcuno fa la spesa pensando a te”. Poi Vitasnella, che lanciò gli hashtag #svegliaitalia e #lamorealmeglio, e Real Time, che per l’occasione cambiò il proprio logo e il canale in “Real love”.
Di esempi ce ne sono tantissimi, soprattutto negli ultimi anni. Basti ricordare lo scalpore che fece lo scorso anno la pubblicità dei 4 salti della Findus, lo spot gay-friendly che mostrava il coming out di un giovane durante una cena con la mamma. Dall’altra parte però, la figuraccia della Barilla, quando il patron Guido, affermò ai microfoni di Radio 24: “Non faremo pubblicità con gli omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale”. Attaccata da ogni fronte, la nota azienda di pasta che esporta in tutto il mondo, fu costretta ad impegnarsi in un faticoso cammino di redenzione: cominciò con un video nel quale Guido Barilla chiedeva scusa, “E’ chiaro che ho molto da imparare sull’evoluzione della famiglia”, per poi continuare con promozioni, corsi, incontri con le comunità LGBT e assumendo in azienda attivisti che si impegnano come consulenti del cambiamento. L’impegno della Barilla è stato riconosciuto anche dalla Human Right Campaign, un’importante associazione per i diritti degli omosessuali.
La polemica scoppiò anche con Ikea, che non solo pubblicò sulle pagine dei suoi social “Per fare una famiglia non c’è bisogno di istruzioni”, ma diede vita ad un Family day alternativo e tollerante, nella stessa data di quello “ufficiale” (il 30 gennaio 2016), “per celebrare con un bacio l’idea di una famiglia aperta a tutti”.
Non tutti la presero bene. L’onorevole Maurizio Gasparri pensò bene di lanciare una campagna di boicottaggio all’Ikea sulla propria pagina Twitter. Le stesse reazioni anche con l’Adidas: “Da oggi comprerò solo Nike” (che poi la Nike l’approvazione della legge l’ha chiesta, negli USA, addirittura alla Corte Suprema, assieme ad altre duecento aziende) e “Le aziende non dovrebbero schierarsi su temi come questo”.
Ma perché un’azienda non dovrebbe schierarsi a favore di una campagna sociale o della promozione dei diritti dei cittadini?
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Una delle pubblicità più belle degli ultimi anni è quella della Dove: alcune donne descrivono il proprio viso ad un disegnatore che non le vede. Poi lo stesso volto viene disegnato seguendo le direttive di altre persone presenti. Il significato era che le donne hanno una percezione di se stesse molto diversa da quella reale, quasi sempre peggiore. E cosa c’entrano i deodoranti con l’insicurezza femminile dovuta all’imposizione dei canoni di bellezza? Molto poco.
Si tratta semplicemente di corporate identity, la costruzione di un’identità d’azienda. Questa presuppone che tutti i dipendenti siano coscienti delle politiche (o come si dice ora, della policy), consapevoli che l’azienda ha degli obiettivi e delle caratteristiche ben definite, che possono essere anche quelle di schierarsi a favore dei diritti civili, lanciare campagne sociali che possono riguardare l’ambiente, sensibilizzare sul tema dell’Aids (i jeans Levi’s hanno un taschino piccolo fatto apposta per contenere i preservativi).
Il problema sono tutti quei giornalisti che, in buona o cattiva fede, continuano a scagliarsi contro queste aziende, ignorando ogni concetto basilare sulla comunicazione d’impresa. E’ evidente che ci sarebbe solo da premiare chi, in nome dei diritti civili, è pronto a perdere soldi e clienti.
Marialuisa (da sempre Malù) nasce a Caserta, giusto in tempo per vedere alla televisione la caduta del muro di Berlino. Decide di coronare le sue passioni (letteratura, scrittura e politica), con rispettive lauree e master. Nessun diploma tra quelli presi, però, attesta che le piaccia uscire, fare festa e correggere gli altri sulla grammatica italiana.