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La pazza gioia di Paolo Virzì: un film che colpisce al cuore

Lunghi applausi a Cannes, successo al box-office e distribuzione  all’estero. Perché La pazza gioia di Virzì fa ridere e commuovere fino alle lacrime? Due donne alla ricerca della felicità La pazza gioia di Paolo Virzì è prima di tutto una storia di grande amicizia tra due donne: Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) aristocratica, logorroica e invadente; […]
La pazza gioia di Paolo Virzì: un film che colpisce al cuore

Due donne alla ricerca della felicità

La pazza gioia di Paolo Virzì è prima di tutto una storia di grande amicizia tra due donne: Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) aristocratica, logorroica e invadente; l’altra, Donatella (Micaela Ramazzotti), povera, depressa e con tendenze suicide. Si incontrano a Villa Biondi, una comunità terapeutica nel pistoiese.

Dall’attrito tra le loro vite non possono che scoccare scintille fino a una rocambolesca evasione fuori dalle mura protette della struttura che le accoglie: una fuga che è uno scappare ma, ancor di più, un trovare (assieme) la forza per affrontare chi e cosa le ha condotte alla malattia mentale.

La pazza gioia: tra dramma e commedia

Il risultato è un film che riesce a mantenersi in equilibrio tra comico e drammatico, qualcosa di estremamente raro poiché è facile cadere nel bozzettismo, nella banalità o nella storia strappalacrime.

Con La pazza gioia, Paolo Virzì porta il disturbo psichico fuori dalla zona d’ombra in cui lo relega la società, come se fosse qualcosa che non ci riguardi, che teniamo lontano, forse perché abbiamo paura di scoprire che ci appartiene più di quanto pensassimo…(a tal proposito, vi consiglio questa bella intervista al regista!).

Le attrici, l’anima del film

Quelle che vediamo sullo schermo, queste Thelma e Louise italiane, non sono caricature, sono donne vere che, dietro il disagio mentale, esprimono con tenerezza infinita il loro unico bisogno: amare ed essere amate.

Le attrici sono state bravissime, hanno lavorato sul corpo (la Ramazzotti è al limite dell’anoressia), sugli sguardi, sui tic, sulle emozioni, aiutate da una sceneggiatura ben scritta dallo stesso Virzì con Francesca Archibugi (a sua volta regista e sceneggiatrice).

Entrambi hanno frequentato diverse strutture terapeutiche per avvicinarsi al mondo dei pazienti: sul set, inoltre, hanno voluto come attrici alcune donne in cura al Dipartimento di Salute Mentale di Pistoia, dove si fa terapia anche con progetti teatrali.

Paolo Virzì, unico erede della commedia all’italiana

Con i suoi 13 film, Virzì ha compiuto un percorso coerente che lo configura come  l’unico erede della gloriosa tradizione della commedia all’italiana di Risi, Monicelli, Scola, Germi e tanti altri. Il suo linguaggio mescola elementi comici e drammatici e, soprattutto, cerca di interpretare in maniera graffiante le contraddizioni della società italiana contemporanea (per quanto ne dica, invece, il critico Goffredo Fofi che – non si capisce bene perché – parla di “un modo di narrare che non sembra appartenere più all’oggi”).

Secondo me, quando riesci a dire tanto con un cinema che non è elitario, ma popolare, vuol dire che hai fatto davvero un ottimo lavoro.

Poiché non ci si nasconde dietro intellettualismi autoreferenziali che piacciono molto a qualche critico, ma che allontanano gli spettatori dalle sale.

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Sull'autore

Pietro Brancaccio

Laureato al DAMS (Discipline d’Arte, Musica e Spettacolo), scrive di arte e cultura perché – parafrasando Dostoevskij – è profondamente convinto che la bellezza salverà il mondo. È appassionato di viaggi, culture straniere e dei nuovi stili di vita che uniscono tecnologia avanzata e sapere arcaico della Natura.

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